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sabato 17 giugno 2000

Ieri e oggi sulla Torre Re Alberto

Dalla Val di Mello alla vetta della Torre Re Alberto passando per una via nuova sulla Punta Meridionale del Cameraccio. Storia e ripetizione del passaggio più difficile di Giusto Gervasutti.



IERI E OGGI SULLA TORRE RE ALBERTO 

Scritti in corsivo di Aldo Bonacossa – dal libro “Una vita per la montagna”, ediz. Tamari 1980

1932, 31 agosto. Dalla Punta Cameraccio 3025 m, salita per lo spigolo dal passo omonimo, il lato nord della torre ci parve insuperabile. La stessa impressione ci fece il giorno dopo da più sopra, vincendo per primi il Torrone Orientale ancora dal Passo del Cameraccio sicchè, sempre dietro all’amico Hans Steger di Bolzano, allora allo zenith come arrampicatore, e la famosa alpinista Ninì Pietrasanta, decidemmo per l’indomani un attacco da sud. Ci fu un tratto duro passando da un canale di destra a quello di sinistra ma poi per questo ci innalzammo presto, sempre sullo straordinario granito, fino alla cresta, a guardare avidamente. Ancor piuttosto lontana, al termine di frastagliature, la nostra punta non era più un cilindro ma si era slargata in una specie di muro tagliato a picco, compatto, attraversato da una gran venatura di quarzo, con un gobbone liscio a sinistra e un cocuzzolo sommitale. Come salire quel muro? C’era poco da sperare. Ad ogni modo per vedere più da vicino, un po’ sotto a destra sul lato di Val Cameraccio, un po’ per la cresta di saldissimo granito divertente anche se talvolta troppo ricoperto di muschio, andammo fino a breve distanza lui. Non scorgendovi però una probabilità, l’entusiasmo andò man mano smorzandosi.

Ottobre 1933. Di nuovo alla Ferrario con Giusto Gervasutti, non ancora famoso come poi ma già, per gli amici, il “fortissimo”. Alternava allora, anche per ragioni attinenti al suo avvenire di vita, momenti di decida intraprendenza ad altri di tendenza alla contemplazione. Siccome due settimane prima l’avevo condotto, presso il Maloja, a pochi minuti da una stupenda parete di granito liscio ed egli nel tentarla aveva preferito rimaner sdraiato tra i blocchi della cresta al limpido sole settembrino, calcolavo che appunto per l’alternarsi delle sue disposizioni d’animo questa volta si sarebbe impegnato a fondo, tanto più avendo l’oggetto dei nostri desideri proprio a portata di mano. … in cresta ci salutarono il sole e il poderoso Disgrazia, e subito ci demmo ad osservare la nostra torre. Riaffiorarono i dubbi. Fu l’enigma delle possibilità della salita a lasciar Giusto indeciso? Fu il calduccio del sole a cullarlo in pensieri meno ardimentosi? Presto mi accorsi che non era ancora sufficientemente caricato per quell’impresa che si annunciava per lo meno difficilissima: non insistetti a forzare i suoi dubbi.

Aldo Bonacossa raccontava così i suoi primi timidi tentativi alla “torre”, un insignificante cucuzzolo quadrato che fa da vedetta a tutta la Val di Mello, incastrato da chissà chi in equilibrio su quella lunghissima cresta rocciosa che divide la Val Torrone dalla Val Cameraccio.
Alla termine di quella lunga giornata di un tiepido autunno 1933, Bonacossa e Gervasutti rientrarono al rifugio Ferrario (antico rifugio situato in Val Torrone, Valmasino, distrutto due anni più tardi a causa del turbinio di una grossa valanga) dopo un’esilarante scorpacciata di cime e denti della cresta, toccando l’allora inviolata Punta Meridionale del Cameraccio e scendendo per lo sperone che la delimita in basso.
Alla sera per quei due l’obiettivo prossimo era ormai ben chiaro.
Gervasutti era già sulla strada per diventare il “fortissimo”. Solo un arrampicatore di tempi ben più lontani a noi poteva accaparrarsi un soprannome così. Nei tempi attuali, sarebbe decisamente auto-esaltativo e piuttosto scomodo essere marchiati in questo modo e darsi in pasto ad un mondo che vive in troppa falsa modestia: quello è un fortissimo della parete, del sasso, della zona… certo, lo si dice ancora, è comunque decisamente più facile che nessuno venga mai più additato come “il fortissimo”.
Per capire il perché, e affondare la propria ricerca del sapere in un impolverato pianeta di settant’anni fa, bisognava ovviamente scomodare le chiappe.
Scoprire l’ardimento di un tal personaggio rappresentava fisicamente solo la decima parte di quello che ci eravamo prefissati io e Pala. Un viaggetto senza tempo e senza confini ben delimitati: la traversata integrale della cresta del Cameraccio, dalla Val di Mello allo svettante Pizzo Torrone Orientale; era ed è un’idea questa che piaceva a tanti locals della valle, e questo fatto piaceva anche a me. Notavo che in valle ormai si parlasse solo di microappigli e macrogradi, di trapani e di batterie perfezionate, e in tutti questi discorsi ci capitavo spesso anche io a dar fiato ai dibattiti in corso. La voglia di evadere dalle mode del momento funzionava comunque nei momenti più inaspettati, almeno su una parte della comunità arrampicante valligiana. Così il “Bandito” e Christian erano stati fra i primi a provare qualche anno fa la traversata, passando per la torre rocciosa che il fortissimo aveva violato e dedicato all’allora monarca del Belgio, Re Alberto.
Affascinato dal loro racconto, da altri tentativi precedenti e da tutto quello che già sapevo, capivo che per me la traversata era solo il pretesto, la torre il vero richiamo. Tutto questo non poteva essere affrontato come una ricerca di exploit o di “prima ascensione”, bensì l’avrei apprezzato come un piacere che io e il mio compagno avremmo potuto interrompere senza rimpianti in ogni suo momento.
Nel primo periodo estivo, con il materiale per tre o quattro giorni da dedicare a cavallo tra Val Torrone e Val Cameraccio, ci inerpicavamo direttamente al mattino verso l’inizio della galoppata. Un orario insolito per partire alle 8 dal parcheggio all’inizio della Val di Mello, con i primi passanti baldanzosi in maglietta, calzoncini e zainetto quasi invisibile. Chi ci notava con sacchi belli colmi e caschetti bene in vista, non riusciva ad intuire dove erano diretti due baldi giovanotti a quell’ora e in veste molto alpinistica. Salendo sotto un primo sole già caldo, dai pascoli più alti della Val Torrone il mio sguardo veniva presto rubato dalla verticalissima Elettroshock del Picco, che avevo appena salito in solitaria due settimane prima. Un’altra storia, meglio, una favola che mi piaceva rivivere ogni anno per assaporare una battaglia solitaria, e quest’anno era sulla via più sostenuta e faticosa della zona. Ci accingevamo alla prima tappa di questa avventura bisognosa d’entusiasmo ed io raccontavo in continuazione i momenti salienti dell’altra avventura. Non so se Pala, Lorenzo Lanfranchi, un fortissimo anch’egli, riusciva ad ascoltarmi oppure era più concentrato sulla prima roccia che avevamo sopra la testa. Ancora all’ombra, il versante ovest della Punta Meridionale del Cameraccio invitava a decidere dove essere salito. Sullo sperone erboso a destra si leggeva la traccia invisibile del Gerva e del conte Bonacossa. Più a sinistra erano saliti Christian e Bandito, in caccia anch’essi ma di conquiste decisamente meno eroiche. Noi attaccavamo – ma che brutta parola – sulla verticale della cima, alle soglie del mezzodì e con le gambone ancora ripiene di fatica e di pesantezza. Senza fretta e senza studio. Una parete che da lontano sembra un liscio pilastro si trasformava in realtà in una sequenza di tiri di corda su difficoltà classiche purtroppo mai sufficientemente protette. Stavamo all’occhio quindi, e continuavamo a salire in alto senza mai capire quanto poteva essere lungo lo sperone che ogni tot indefinito ci lasciava sdraiare ansimanti su qualche comoda cengia erbosa. Smontavamo le sicurezze appena superata l’ultima fascia verticale della parete, dopo un numero di lunghezze che non ricordiamo neppure ora, più o meno quindici o sedici, ma non aveva importanza. Era solo l’inizio di un probabile “quasi 100” tiri che avremmo voluto racimolare strada facendo per portare avanti il viaggio.
Ce ne stavamo infine sulla nostra prima cima, alla fine della nostra nuova e classica via, e appariva dolcemente ogni traettoria buona per andare avanti in direzione dell’evidentissima, squadrata e tutto sommato “piccola” Torre Re Alberto. La meta iniziale? Il pomeriggio proseguiva senza pietà ma il fatto di potersi fermare a dormire da qualsiasi parte aiutava le nostre pedule a macinare più terreno possibile per addolcire la giornata successiva. Su e giù dai torrioni della cresta, alcuni di essi ancora inviolati, prestando attenzione solo nel decidere dove aggirare e dove invece rimontare le rocce per poi discenderle in doppia e proseguire ancora. Fatto sta che alle otto di sera eravamo alla base della mitica torre, della placca dove il “fortissimo” si ingarbugliò nel più duro passaggio della sua esistenza.

Giusto era ormai caricato: non ci fu bisogno di parole per decidere sull’indomani. 6 ottobre. Altra giornata splendida. Di nuovo al passaggio tra i due canali, ormai familiare e quindi più facile, poi svelti su al sole in cresta e vie lungo essa, scavalcando o aggirando le frastagliature fino ad un intaglio quasi al piede della torre. La osservammo attentamente.
Dalla base fino al  sommo il largo muro era proprio tagliato a picco, senza la più piccola fessura. Unica apparente eventuale soluzione: innalzarsi sul bordo sinistro di esso, tentare di traversarlo verso destra molto in alto fino ad una zona forse un po’ più articolata, e da essa su alla vetta. Facemmo come il vecchio Burgener di Mummery e Schultz: tentare val più che studiare...

Ultimo sole radente sulla placca. Sono le venti passate e Pala mi regala l’onore dell’ultima fatica: libero dallo zaino, dopo qualche occhiata preliminare riesco a entrare sulla placca - “Carina, passaggio atletico e poi aderenza puro stile mellico” – salgo piano sulla roccia un filo lichenosa e poco intaccata dalle scarsissime ripetizioni – “Pala, qui c’è un chiodaccio dell’epoca, ma altro non si riesce a mettere” – e si continua a salire per un quintopiù aderenzoso verso l’impennata della placca – “ma cavoli, capisco l’ardimento, capisco la voglia di conquista, capisco la relativa pazzia inconscia dell’epoca, certo, capisco, ma tutto questo lisciume lo vedi già da sotto, non puoi trovarti all’improvviso su una cosa del genere!”. Il “fortissimo” probabilmente sapeva a cosa stava andando incontro, non si trovò per caso verso il passaggio da lui definito “più duro della mia carriera”.

…e Gervasutti partì. Salì ancora alquanto accanto allo spigolone poi intraprese la traversata del muro. Sempre più lento, da un minuscolo appoggio all’altro, finchè si fermò. Gli mancavano ormai solo forse tre metri perché al di là del tratto liscio potesse magari aggrapparsi a qualche cosa e forse tirarsi su. Disse che non c’era possibilità alcuna di piantare nemmeno un chiodino. Io guardai fin lassù, ormai ad una quindicina di metri più in alto, poi giù. Fosse volato avrei solo fatto in tempo a recuperare tutt’al più qualche metro di corda prima che egli fosse andato a afracellarsi sulle dentellature della cresta dopo una trentina di metri nel vuoto. Mi chiese cosa fare ed io non potei dirgli altro che “decidi tu”. Non ho mai dimenticato, pur dopo tanti anni, la sua espressione in quel momento. Un accenno di pallido sorriso forse più per far coraggio a me che non a se stesso: ma fugace, melanconico, quasi triste. … Una contrazione di tutto il mio essere, quasi uno spasimo: Giusto aveva allungato un piede fino ad una rugosità per me invisibile; iniziata da quella un’enorme spaccata con le mani solo appoggiate alla roccia si era lasciato andare in avanti come cadesse: ma no! Con le dita di una mano si era aggrappato spasmodicamente ad un appiglio che era stato la sua salvezza e la nostra vittoria. Nervosamente si tirò su e fu tosto in vetta alla torre e là rimase a lungo per riprendersi. Un chiodo di assicurazione lassù mi permise di compiere la traversata senza rischio. Sdraiati sul piazzaletto sommitale, dopo qualche minuto eravamo ancora ansanti.

Dalla base della torre era già tutto chiaro: nessuna fessura, una liscia placca che finisce solo a due metri dalla cima, un percorso un filo scoraggiante ma possibile, anche allora, anche e per il fortissimo. “Occhio adesso” – per quel che può servire, e non serve ovviamente più, invito all’attenzione l’amico che mi assicura anche se ad occhio e croce da qui si finisce giù dritti spappolati nel canale alla base della torre, confermando le severe ammonizioni del Bonacossa. Un ristabilimento in pura aderenza - e chi se l’aspettava pensando alle scarpette in feltro dell’epoca - e poi la traversata “in apnea” verso destra, verso la fessura che ti issa sulla piatta cima della torre. E’ sesto grado, per chi legge è uno “stupido” 5c o 6a, ma per noi, in quel momento, è un regalo di un epoca, qualcosa che ancora farebbe intestardire più di uno scalatore abituato alle sicurezze del duemila. Ci penso subito: chissà mai quando qualcuno ritornerà qui, su questa piatta cima di un cubo di roccia insignificante rispetto alle linee verticali delle montagne intorno? Chi racconterà che su di qua c’è un bel pezzettino di storia, di personaggi e di epoche lontane anni luce? Per cinque minuti gironzolo sulla piatta cima, butto l’occhio sulla cresta che va avanti ma senza tanto interesse, sono vuoto... Altri stambecchi fanno capolino dalle creste. Immerso in mille pensieri, trovo una sosta ridicola e mi accorgo presto che sarà l’unica sosta possibile.

Tacitamente avevamo già pronto il nome per la torre: quello del compagno col quale ancora quattro giorni prima avevamo compiuto la sua ultima ascensione terrena. Così scrissi sul biglietto che lasciammo lassù: Torre Re Alberto. Allorchè comunicai al Re la riuscita della salita alla Torre, ringraziandomi di avergliela dedicata, così si espresse: “la torre che avete chiamato col mio nome è dunque molto difficile se un alpinista come Gervasutti ha dovuto consacrarle tutte le sue forze...

Recupero Lorenzo e sulla cima della torre ci capiamo al volo, senza dover dire nulla. Sappiamo ormai tutti e due che scenderemo, che finiremo una così avvincente ed eterna cavalcata, abbandonando il progetto della traversata integrale ma godendoci ora il più emozionante momento di un giorno senza tempo. Non ci sono dei “perché” ben definiti sulla nostra rinuncia, solo la voglia di incorniciare e non far sbiadire il percorso che ci ha portati quassù. Con le ultime luci cominciamo a battere qualche chiodo e lasciare qualche nut per cominciare le calate verso il bivacco Manzi-Pirotta. Ci arriviamo solo qualche minuto prima di mezzanotte, buttandoci letteralmente sul fornelletto e sulla smisurata quantità di cibo che abbiamo con noi, svegliando anche il tedesco che dorme nel bivacco e sta percorrendo il suo viaggio, dal centro Svizzera fin giù al Masino, con il suo zaino, solo con i monti che più lo attraggono.
Tre vagabondi delle cime si addormentano ormai a notte fonda e solo dieci ore più tardi abbiamo ancora un po’ di orgoglio ritrovato per non trascurare nel sonno una mattinata inondata di sole estivo. Mentre percorriamo la modernissima, tranquilla e spittata via sullo spigolo del Picco, questa volta i miei pensieri non sono più per la vicinissima "Elettroshock": “Dimmi un po’ Lorenzo. Ma secondo te, Gervasutti, il “fortissimo”, sarebbe salito anche per ‘sta placca di 6a?”.

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