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venerdì 9 luglio 1999

Karakorum, Khridas Valley

Decidevamo di non entrare nella Nangmah Valley, “troppo” frequentata negli ultimi anni (circa 10 persone ogni stagione...) e puntavamo le nostre attenzioni alla valle meno esplorata del mondo, quella dove neppure i Pakistani più affamati di stambecchi erano mai riusciti a portarsi fin lassù.
Con sei portatori, gli unici disponibili per l’avventura, alleggeriti del loro fardello ed ora alla nostra pari, agevolati dalle corde fisse che sistemavamo nel tratto roccioso che sbarrava la valle, eravamo finalmente su a contemplare la scoperta di un ennesimo microcosmo di granito.
I nuovi compagni mi avevano raggiunto a fine giugno (Maurizio Giordani, Natale Villa e Lorenzo "Pala" Lanfranchi) e portavano con loro il bel tempo che non era quello delle Alpi ma forse quello che avevano preso in volo sopra la Russia o non so dove...
Finalmente un po’ di caldo.  

Dove andare adesso è il primo scoglio da superare. Pareti a destra e sinistra, pilastri slanciati dai 500 ai 1000 e passa metri, tutto era ormai a portata di mezz’ora dalle due piccole tendine che montavamo su di un minuscolo campetto d’erba, l’unico sopravvissuto in questa landa di ghiacci e rocce. Assaggiamo per prima cosa il granito del luogo e saliamo più o meno agevolmente il castello di torri chiamato subito King Brakk, come la corona di un re appunto. Poi ci dedichiamo al missile di roccia che chiamiamo Allah Finger, vale a dire al Capucin per due o se volete alla Torre Trieste un po’ snellita.
Un giorno, due giorni di scalata. “Scusatemi ragazzi ma secondo me è molto più lunga di come la immaginiamo”. Al terzo giorno abbandoniamo terra definitivamente per gli ultimi sperabili tiri. Siamo solo al settimo di questi e tutto ormai sembra agli sgoccioli, ancora due o tre e siamo in cima.
La via non molla mai, con intoppi di ogni genere in ogni tiro, sia per l’elevata difficoltà che per la difficile chiodatura, e poi non finisce più. Il tempo va, passano le ore e finalmente... tutto si chiarisce dentro di noi. Una brutta sensazione ci dice che siamo stati fregati ad un anno di distanza dall’altra fregatura a pochi chilometri da noi (Charakusa). Alla diciottesima sosta, quando la via doveva essere archiviata da un bel po’ di tiri, guardo Natale in faccia per una sana risata isterica. “La cima è imprendibile, altro bivacco senza nulla e altra gelata notturna, vaffanculo allo stile alpino very light. Mauriiiiiziiiioooo!, te l’avevo detto che era meglio prendere su tutto per mangiare e dormire in parete!”. Il compagno non mi risponde e risale la goulotte di ghiaccio che ha appena impegnato “Pala”. Si avvicina sempre più per la bella filastrocca che mi ripete da quattro anni in spedizione con lui: “Il valore di una salita si valuta dal materiale che hai con te!”. Ci ripenso mentre valuto i micro-zaini da falesia che abbiamo con noi per una roccia di 24 lunghezze di corda! Fregati dalle nostre stime ad occhio, dalla limpida aria del Karakorum o da chissà cosa. Quando le dimensioni contano! E proviamo a riscaldarci...
Il mattino dopo un gelido battere i denti siamo finalmente in cima, talmente cotti da non accennare nessun segno di euforia e tredici doppie più tardi siamo di nuovo davanti a una pasta bollente. 

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